CHIESA
DI SAN BERNARDO
Nell’ambito
degli Itinerari Artistico-Spirituali
della Parrocchia di Santo Stefano
Visita
guidata di Enzo Staffa in concomitanza con la Festa di S. Antonio Abate
Sabato
18 gennaio 2014, ore 15,30.
Cominciamo con la storia di questa chiesa
Si deve la sua fondazione a Bernardo Fecchi, i cui stemmi della famiglia, ovali senza colori, e
la lapide a ricordo, precedentemente conservati nella sacrestia, nella
ristrutturazione del 1996 sono stati murati sotto i balconi della cantoria e
dell’organo nel presbiterio. Si tratta
di scudo accartocciato con cervo rampante e corna ramose, che regge un
fiordaliso; capo di Francia caricato di tre fiordalisi.
La sua potentissima e ricchissima schiatta era stata
costretta a lasciare Perugia, dove ricopriva eminenti cariche nel Senato, agli
inizi del 1500, perché coinvolta in profondi e sanguinosi dissidi e vendette
nelle discordie cittadine, portandola a cercare asilo in differenti regioni
d’Italia. Un ramo si stabilì nella valle del Lamone ed uno a Modigliana a cui
diede diversi Priori e due capitani di Giustizia ed i suoi discendenti furono
iscritti al 1° Ordine del Consiglio Municipale.
Con testamento del 1598 e codicillo del 1617 rogati da
Girolamo Fornaci, Bernardo lasciò scritto che venisse costruita una chiesa
collegiata, nel centro del suo fondo “Canove”,
dedicata a S. Bernardo Abate, a favore dei Padri
Regolari del Buon Gesù di Ravenna, dotandola di sufficiente patrimonio
perché venisse quotidianamente officiata da quattro sacerdoti per comodo e
benefizio di questa Terra.
Il pio e generoso fondatore morì il 1° febbraio del 1618.
I lavori di costruzione del tempio, però, iniziarono solo
nel 1645 e terminarono ben 28 anni
dopo, nel 1673. Essendo decaduti
dall’eredità “i Padri Regolari del Buon
Gesù” di Ravenna, con bolla di Papa Innocenzo X, del 1645 e beneplacito di
Cosimo III, Granduca di Toscana, fu istituita una collegiata di quattro cappellani
perpetui, fino a quando fu aggregata al Capitolo della Cattedrale di S. Stefano,
nel 1854, con l’insediamento del
Vescovo, nella appena costituita Diocesi di Modigliana con bolla di Pio IX, del 1850.
Pochi anni dopo la
sua inaugurazione, nel 1679, proprio
qui fuori, davanti alla chiesa, durante la Missione diocesana predicata dal famosissimo
oratore gesuita padre Paolo Segneri,
avvenne il fatto prodigioso che ho riportato ne “Il Piccolo”, citato dall’Abate Lattanzio Vajani, modiglianese e
Canonico della Basilica di S. Maria Maggiore in Roma. (Grande stima del Papa e del Granduca Cosimo III° e fitta
corrispondenza con loro) In breve, per chi non l’ha letto, avvenne che, durante
la predica, si scatenò un violento temporale che fece correre tutti al riparo
ma che lasciò il Segneri asciutto, nonostante avesse continuato a predicare
imperterrito, secondo quanto constatarono l’Abate Vajani ed il Sig. Nicolò
Borghi, come se non fosse caduta nemmeno
una goccia di pioggia. (E’ lo stesso
Vajani che nel 1689-90 portò i Padri Scolopi ad aprire le scuole nei pressi
della chiesa di San Rocco in Borgo)
Nella lapide in latino murata nella controfacciata si conferma
che nel 1895 il Priore Giovanni Traversari Violani, a spese sue e di Maria
Galeati ved. di Francesco Solieri, del Vescovo Leonardo Giannotti, di Lorenzo
Savelli, di Giulio Frappoli, di Giovan Battista Ronconi Albonetti, di Giovanni Bandini,
e di altri benemeriti cittadini, rifece la facciata
della chiesa in puro stile
neoclassico (sembra un tempio greco), cinque
altari, intonacò pareti ed abside decorando quest’ultima, abbellì l’altar
maggiore, chiuse il presbiterio con una balaustra di marmo, costruì le cantorie sui due lati, v’installò
l’organo, le vetrate colorate, le Vie
Crucis, e dotò la chiesa di arredi nuovi candelieri dorati, calici,
pissidi etc. ridandole munifico aspetto
ad esempio e memoria dei posteri.
Probabilmente dotarono questo tempio anche di alcune pale
d’altare che possiamo ora ammirare. Ad
eccezione della pala d’altar Maggiore, sono state tutte classificate in modo
molto generico, dalla Soprintendenza, come opere d’autore romagnolo ignoto del
XVII° secolo. Ad eccezione della “Sacra Conversazione” posta in alto nella
prima cappella a destra, sono opere che
denotano apertamente il Manierismo imperante in quel periodo. L’innovazione Caravaggesca
porta gli artisti dell’epoca all’impiego,
a volte violento e spregiudicato della luce e dell’ombra, per evocare ambienti,
immagini e sentimenti contrastanti, che destano l’ammirazione dei
contemporanei, da divenire appunto “maniera”. Ispirandosi alla sua opera, gli
artisti ne colgono spesso solo superficialmente la drammatica profondità,
essendo attratti più dalle ambientazioni fosche e suggestive, dalle descrizioni
crudamente realistiche, che dalla tragica e sofferta umanità celata dal grande
maestro, dietro quelle straordinarie forme. La luce che colpisce i personaggi, e da questi completamente assorbita,
senza raggiungere e svelare il fondo scuro contro cui si muovono, è
straordinaria intuizione volta a far concentrare, colui che guarda,
esclusivamente sul personaggio o sulla vicenda posta in luce, senza essere
distratto da visioni panoramiche profonde o da strutture architettoniche
incombenti.
Ma torniamo al nostro
tempio.
Come potete vedere si tratta di una costruzione a navata
unica, con 8 cappelle laterali poco profonde ed il tetto a cavalletti. In alto
sulla chiave dell’arco trionfale del presbiterio campeggia lo stemma della
famiglia modiglianese dei Tremazzi subentrati
quali curatori e protettori dell’edificio, all’estinzione della famiglia del
fondatore a fine ‘700.
Anche questo è uno scudo accartocciato sormontato da un
elmo piumato con visiera a sbarre in maestà. Dovrebbe essere in campo azzurro,
a tre mazze ferrate d’oro poste in banda, legate da nastro rosso.
Si tratta di una famiglia modiglianese di armigeri, che
si imparentò con altre cospicue famiglie del luogo come i Papiani, i Savelli,
gli Squarcialupi, i Ronconi e i Montaguti. Ha dato alla città undici priori, quattro
gonfalonieri di giustizia e di compagnia, diversi capitani, podestà, pretori,
vicari, castellani e commissari nelle diverse terre della Toscana e della bassa
Romagna, nonché alcuni dotti Sacerdoti
I Tremazzi, come del resto i Fecchi, furono iscritti nel
Libro d’Oro di Modigliana. Molto probabilmente abitavano il palazzo in piazza
Oberdan, il cui portale è circondato da
una raggiera di conci in pietra, e l’interessante ingresso con soffitto a
cassettoni con i segni di un passato splendore.
1^ cappella a destra entrando:
Dove originariamente c’era il fonte battesimale, vi è ora
un plinto di colonna in marmo greco,
molto probabilmente proveniente da Ravenna, databile attorno al VI° sec. d.C,
con un solo lato decorato e catino scavato all’interno.
Il motivo delle specchiature, che inquadrano un rombo o una
losanga, è un tipo di decorazione molto diffuso in tutte le categorie d’arte a
Costantinopoli e nelle province dell’Impero Bizantino, ad iniziare dalla metà
del V° secolo d.C. circa e soprattutto nel corso del VI° secolo. In Italia gli
esempi sono numerosi: in primo luogo Ravenna sulle eleganti basi del colonnato
della Basilica di S. Apollinare in Classe e nell’ambone della basilica di S.
Apollinare Nuovo. Analoghe lavorazioni si trovano nella Basilica di S.
Marco a Venezia, nel Duomo di Ancona e
nella chiesa di S. Nicola a Bari.
Originariamente era il fonte battesimale della Pieve di
S. Stefano e prima ancora quello della protochiesa modiglianese di S. Giovanni
Battista posta di fronte alla Pieve di S. Stefano ed a cui ha fatto da
Battistero fino al 1697. Detto Battistero era la chiesa paleocristiana consacrata
da S. Apollinare, fra il 45 ed il 74 d.C., riadattando un precedente tempio di
Apollo eretto su fondazioni di un tempio ancora più antico.
Sopra questo, l’originale candelabro in ferro battuto e
rame, un tempo appeso in navata, opera dell’artigiano locale Tullio Ravaglioli.
Riposizionato durante i lavori di pulizia e ristrutturazione del 1996-97.
In alto, posizionata
durante l’ultima ristrutturazione, pala d’altare d’ignota provenienza, raffigurante
la Madonna della cintura col Bambino ed
ai piedi i santi Francesco d’Assisi (??) e Rosa da Lima, opera attribuita a Tommaso Missiroli. Non ci
sono documenti ufficiali che comprovino tale autore. Vi parlerò diffusamente di
lui quando esamineremo la pala d’altar maggiore. Tralasciando S. Francesco ben conosciuto da
tutti vorrei spendere due parole su Rosa
da Lima santa insolita da noi.
Al secolo Isabel Flores de Oliva (Lima 1586 -1617), è stata una religiosa peruviana del terz'ordine domenicano: nata da
una nobile famiglia di origine spagnola, decima di tredici figli, i suoi
numerosi agiografi raccontano che a tre mesi dalla nascita la sua culla sarebbe
stata circondata da rose. Fin da piccola aspirava alla vita religiosa, il suo
modello era santa Caterina da Siena. A vent'anni vestì l’abito delle Suore del Terz’Ordine regolare
dei Predicatori. Alla preghiera alternava autoflagellazioni, veglie e digiuni,
mentre la sua vita ascetica era costellata di visioni ma anche di tormenti e
tentazioni diaboliche. Consumata dalle penitenze, che offriva per la salvezza dei
peccatori e per la conversione delle popolazioni indigene, morì a trentuno anni.
E’ stata la prima dei Santi americani ed è la patrona del Perù, del Nuovo Mondo e delle Filippine.
La storia della
devozione alla Madonna della Cintura.
Riguardo
all’origine della devozione alla Madonna
della Cintura vi sono due diverse tradizioni. La prima racconta che l’apostolo Tommaso, giunto troppo tardi
a Gerusalemme per assistere alla morte della Madonna, fece aprire il sepolcro
per contemplare le spoglie della Madre di Dio; ma vi trovò solo la
cintura. Secondo un’altra versione della
stessa tradizione, la Sacra Cintola sarebbe stata consegnata dalla Madonna a San Tommaso come segno della sua
benevolenza, al momento della sua assunzione in cielo. Tommaso, prima di
partire per la sua missione nelle Indie, affidò la reliquia ad un sacerdote, che
a sua volta la tramandò ad altri sacerdoti, dando così inizio alla trafila di numerosi
passaggi di mano, fino a quando non giunse in possesso di Michele Dagomari da
Prato, mercante in soggiorno a Gerusalemme nel 1141. Questi venne in possesso
della sacra cintola quale dote di matrimonio con la figlia del sacerdote che
l'aveva in custodia. Michele nello stesso anno tornò in patria portando con sé
la reliquia. Dopo varie vicissitudini, compreso il furto da parte dei
Pistoiesi, nel Duomo di Prato venne costruita una Cappella apposita sul fianco
sinistro della chiesa, all'altezza della facciata. La reliquia, ancora oggi, è conservata in questa
Cappella, affrescata interamente da Agnolo Gaddi con le Storia di Maria Vergine e
della Cintola.
La seconda tradizione, invece, riconduce l’origine del culto a Santa Monica,
madre di Sant’Agostino. (che muore a
Gaeta nel 387)
S. Monica, vedova del consorte Patrizio, e
desiderosa d’imitare Maria SS.ma anche
nell’abito, la pregò di farle conoscere come si fosse vestita nei giorni della
sua vedovanza, specialmente dopo l’Ascensione di Cristo al cielo. La B. Vergine
le apparve coperta di un’ampia veste di colore scuro che dal collo le scendeva
ai piedi, di una stoffa dozzinale e di taglio molto semplice, come un abito
penitenziale. Ai lombi era stretta da una rozza cintura di pelle che scendeva
fin quasi a terra, e fermata, sul lato sinistro, da una fibbia. La Vergine, slacciandosi
di propria mano la cintura, la porse a S. Monica, raccomandandole di portarla
costantemente e di promuovere tale pratica fra tutti i fedeli bramosi del suo
speciale patrocinio.
Da
qui l’elezione della Madonna della Cintura a protettrice dell’Ordine
Agostiniano.
La Sacra Cintola, conservata nel Duomo
di Prato, consiste in una sottile striscia di 87 centimetri di lana finissima di capra, di color verdolino, broccata con filo d'oro, i cui estremi sono nascosti da una nappa su un lato e da una piegatura sul
lato opposto, tenuti insieme da un
nastrino in taffetà verde smeraldo.
2^ cappella di destra : una pala d’altare raffigurante la
Madonna e S. Giuseppe in nembo, S. Luigi Gonzaga al centro, S. Francesco
Saverio a destra, e S. Francesco di Paola in adorazione della scritta CHARITAS,
in alone mistico, sulla sinistra.
Luigi Gonzaga (Castiglione delle Stiviere, 9 marzo 1568 – Roma, 21 giugno 1591) Era figlio primogenito di Ferrante Gonzaga I marchese di Castiglione delle Stiviere. Primo di otto figli, all'età di sette anni,
tuttavia, avvenne quella che Luigi definì la sua "conversione dal mondo a
Dio" Nel 1576, nella Basilica di Santa Trinita a Firenze fece voto di perpetua verginità. Tre anni dopo
rinunciò al titolo di futuro marchese di Castiglione, e all'età di 17 anni
entrò nel noviziato della Compagnia di Gesù a Roma Nel 1590/91 una serie di malattie infettive uccisero a
Roma migliaia di persone inclusi i Papi Sisto V, Urbano VII, Gregorio XIV). Luigi
Gonzaga, insieme a San Camillo de Lellis e ad alcuni confratelli gesuiti, si prodigò intensamente ad
assistere i più bisognosi. Malato da tempo, contrasse la peste e morì all'età
di soli 23 anni.
Francisco
de Jasso Azpilcueta Atondo y Aznares de Javier, comunemente noto con il nome italianizzato in Francesco
Saverio (nasce il 7
aprile 1506
Javier, Navarra , Spagna e
muore nell’isola di Sancian, in Cina, il 3 dicembre 1552), è stato un gesuita e missionario spagnolo, Francisco Javier,
nel 1541 partì per le Indie
arrivò a Goa nel maggio dell'anno
seguente, e successivamente giunse a Taiwan. Con Javier e un altro, il 15 agosto 1534,
Ignazio da Loyola fece i primi voti da cui sarebbe poi
nata la Compagnia di Gesù, nella chiesa di Saint Pierre di Montmartre. I voti erano:
povertà, castità, e pellegrinaggio in Terrasanta. Nel 1545 partì per la Malaysia, e successivamente estese
l'evangelizzazione al Giappone (dove arrivò nell'agosto 1549). Ultimo sogno fu la Cina, ma ammalatosi durante il
viaggio da Malacca all'isola di Sancian, morì nel 1552.
Francesco da Paola nasce nel 1416 a Paola appunto. Nel 1429 si ritira in penitenza e
preghiera in una grotta dove l’angelo Michele gli mostra uno scudo luminoso con
la scritta CHARITAS. Nel 1483 si reca a predicare in Francia. Nel 1502 fonda
l’Ordine dei MINIMI che avrà come stemma lo scudo con detta scritta. Muore nel
1507.
Trattasi di dipinto ad olio su tela, di autore ignoto, ma
di scuola romagnola, databile intorno al
XVII° secolo, in pessime condizioni di conservazione. Oltre ad alcuni vistosi
tagli di baionetta o spada procurati dai gendarmi francesi nell’abituale
ricerca di nicchie contenenti opere d’arte e preziosi da rubare, ha contribuito
al degrado dell’opera una imprimitura molto sottile che ha impoverito la
consistenza della superficie dipinta. Questo significativa povertà di bottega, unitamente
all’ingenuità dell’esecuzione delle figure, fanno di questa tela un opera di modesto
interesse e di non di alto valore.
Le due figure in nembo ricordano un po’ quelle della pala
dell’altare di destra della chiesa delle Agostiniane che rappresenta il Transito di San Giuseppe. Sebbene
quelle siano S. Anna e S. Gioacchino, la composizione delle due pale e in
specie la resa pittorica della coppia in
alto, sono molto simile perché ambedue basate sullo schema compositivo
elaborato dal pittore bolognese Franceschini
alla fine del ‘600. Ma un ulteriore analogia della decorazione di quell’altare con
questa pala, la troviamo nella tela del
sopraqquadro nello stesso altare delle Monache. Vi sono rappresentati S.
Luigi Gonzaga in adorazione del crocifisso, con a lato la corona nobiliare ed
il giglio e, leggermente più dietro, S. Francesco di Paola con lo scudo e la
parola Charitas, come ritroviamo qui.
Sfugge però la ragione per la devozione del clero
modiglianese a S. Luigi Gonzaga, rappresentato in duomo in una tela e con una
statua, e per S. Francesco Saverio, rappresentato, sempre in duomo, in ben tre diverse
tele, se non imputandola, a mio avviso, al fatto che, quest’ultimo, era il
Santo protettore del benemerito Priore
Francesco Saverio Violani che dette inizio, a sue spese, nel 1756, alla
grande ristrutturazione della Pieve di Santo Stefano, portata a termine, dopo
la sua morte, dal nipote Priore Giacomo Filippo Traversari, nel 1794. Chiaramente
questi erano i predecessori nonché i parenti del Priore Giovanni Traversari Violani, che, 100 anni dopo, avrebbe
curato la ristrutturazione di questo tempio, come viene ricordato nella lapide
sulla controfacciata di cui vi ho parlato pocanzi.
3^ cappella di destra : Statua di S. Antonio da Padova in nicchia
chiusa e contornata da modesta ancona in legno dipinto.
4^ cappella di destra:
Statua di San Giuseppe con il Bambino
opera dei famosi plastificatori faentini dell’800, Ballanti-Graziani, posta in nicchia chiusa e decorata da modesta
ancona in legno dorato. Alla base delle
colonne di detta ancona sono scolpiti, in maniera però errata e posizionati a
specchio, gli stemmi della già citata famiglia Tremazzi (le mazze sono
orizzontali anziché in banda).
Abside: Dietro l’altar maggiore, dentro l’imponente
ancona, opera in legno di artigiano forlivese e doratura di artigiano faentino,
grande pala di notevole pregio artistico raffigurante “Il Cristo penante e S. Bernardo”.
Due parole su questo
santo:
Bernardo
di Chiaravalle è Abate Cistercense, dottore, ultimo Padre della Chiesa. Nato a
Fontaine-lés-Dijonin Francia nel 1090, terzo di sette fratelli di un vassallo
di Oddone I di Borgogna, studia dai
canonici di Nôtre Dame di Saint-Vorles, e nel 1111, insieme ai
cinque fratelli e ad altri parenti e amici, si ritira nella casa di Châtillon
per condurvi una vita di ritiro e di preghiera finché, l'anno seguente, con una
trentina di compagni si fa monaco nel monastero cistercense di Cîteaux. Nel 1115, insieme con dodici compagni, tra i quali quattro fratelli, uno
zio e un cugino, fonda un nuovo monastero cistercense a Clairvaux, italianizzato
in Chiaravalle.
L'Abbazia diviene presto un centro
di richiamo oltre che di irradiazione: da qui, già dal 1118 monaci partono per
fondare altrove nuovi monasteri. Teorizzato da Bernardo, è
di sua ispirazione la regola dell’ordine
monastico-militare dei Templari, con sede in Gerusalemme, fondato nel 1119. Nel 1145 Bernardo, su incarico del Papa, predica in
favore della seconda crociata, che sarà
però un completo fallimento. Bernardo muore il
20 agosto 1153 a Ville-sous-la-Ferté in
Francia.
Tornando alla pala d’altare, è questa un’opera del 1685 di Tommaso Missiroli, detto anche il pittor Villano in relazione al suo mai provato coinvolgimento in un omicidio o a certe
stravaganze di carattere, che la letteratura ottocentesca ci rimanda, si è
scoperto invece, in un suo libro di poesie, come il pittore si firmasse già: «Thomas
Missirolius de’ Villanis pictor». Nato a Faenza nel 1636, fu allievo di Girolamo Grazioli, pittore
faentino, passato, forse, a bottega, da Guido Reni a Bologna. E’ pittore molto
incostante il Missiroli, perché nell’esecuzione delle sue numerose opere, che
si trovano nelle chiese di Forlì, Russi, Imola, Faenza, Bagnacavallo, Lugo e
Bologna, passa da grandi invenzioni a non troppo velate copiature e
riproposizioni di modelli e temi di famosi pittori quali il Guercino, il Reni,
il Carracci, Carlo Cignani, Raffaello, Caravaggio ed altri. Un esempio per
tutte: nei due grandi quadri,
eseguiti
molto probabilmente fra il 1667 e il 1674, e posti
nel presbiterio della chiesa dei Ss. Ippolito
e Lorenzo a Faenza, il martirio di S. Lorenzo è una ripresa letterale di
un’opera di Eustache Le Sueur un famoso pittore nato a Parigi nel 1616 ed ivi morto nel 1655, la cui quasi totalità delle opere è
conservata al Louvre.
Il martirio di S. Ippolito
invece è una originale riproposta, in chiave agiografica, di una nota
composizione di Pietro Testa, detto
il Lucchesino, pittore e incisore nato Lucca nel 1611 e morto a Roma
nel 1650, allievo del Domenichino e di Pietro da Cortona, che rappresentante
Achille che trascina il corpo di Ettore vicenda cantata da Omero nell’Iliade.
Ambedue le opere sono rese in maniera di aperto confronto con la pittura
caravaggesca.
Questa pala d’altare, invece è una delle sue opere più riuscite. Scrive il critico Matteo
Benini nel Dizionario Biografico degli Italiani della Treccani, che il Missiroli, nel raffigurare i personaggi principali, il S. Bernardo abbracciato
dal Crocifisso, raggiunge picchi di realismo per lui inediti. Il pittore, per sottolineare la dolcezza ed
il lirismo della vicenda presentata, aggiunge alla composizione un Angelo musicante
ed uno cantore, seminascosto nel fondo scuro. In nembo il Padre Eterno con il
simbolo della Trinità sul capo, contornato da altri Angeli musicanti, che
esprime però, con la mano destra, un gesto che può essere interpretato come un
severo monito al peccatore, una sorta di “Guai ai reprobi”, come pure un ricordare all’uomo la dogmatica
Unità della Trinità Divina.
Tommaso Missiroli fu anche scultore e stuccatore ed ebbe
4 figlie pittrici: Teresa Caterina, Claudia Felice, Orsola e Paola. Si attribuiscono a Claudia Felice, la figlia più talentuosa delle
quattro, alcune opere nelle chiese, nel Museo diocesano e nella pinacoteca
comunale di Faenza e in quella dell’Archiginnasio di Bologna.
A mio avviso il
quadro della Madonna della Cintura della
1^ cappella, ritengo sia opera di una delle 4 figlie, in quanto la pennellata e
gli stilemi sono simili a quelli del padre-Maestro ma quella Sacra
Conversazione non è vibrante, netta e precisa come quella di questa pala, ma,
soprattutto, ritengo che quella sia stato eseguito in epoca in cui il
manierismo dominante delle tele di questa chiesa, comincia a cedere il posto a
rappresentazioni più luminose, più gioiose; un chiaro avvio allo stile barocco
che sarà imperante nell’arte del successivo secolo XVIII°.
Missiroli
morì a Faenza il 18 febbr. 1699.
Alla base delle colonne d’ancona è riprodotto
lo stemma del cardinal Rossetti che fu Vescovo di Faenza negli anni fra il 1643 ed il 1681, mentre
nella trabeazione sono rappresentati lo stemma, poco leggibile, della famiglia del
fondatore Bernardo Fecchi.
In alto, sulla volta a botte, la decorazione monocroma con
angeli e festoni di non grande pregio, databile intorno al XVII sec., riportata
alla luce con la ripulitura dell’edificio effettuata da Don Bassetti negli anni
96-97.
4^ cappella di sinistra:
piccolo quadro di
autore ignoto, di scuola toscana, del XVI – XVII° sec. rappresentante un’Annunciazione
(molto simile a quella più famosa del Beato Angelico in Santa Maria degli
Angeli a Firenze). La grandiosa ancona che
lo racchiude è in muratura e stucco. Il bel paliotto a scagliola policroma,
proveniente da una chiesa di campagna sconsacrata, è aggredito dall’umidità
alla base ed il danno intelligentemente nascosto da una silhouette in
compensato nero.
3^ cappella di sinistra: Un piccolo quadro raffigurante il
volto della Madonna della Pietà, anche
questo di autore ignoto, di scuola
romagnola, databile attorno al XVII° secolo è incastonato in una preziosa
ancona in legno e argento. Negli anni scorsi questa cappella veniva utilizzata
come cappella del SS.mo nella liturgia dei Sepolcri.
2^ cappella di sinistra: La
più bella statua del Sacro Cuore che
abbiamo in paese. L’espressione del volto quasi ansiosa, l’atteggiamento
proteso quasi a sollecitare l’amore degli uomini, si contrappone,
significativamente, all’espressione quasi distaccata della statua analoga che è
in Duomo ed a quella forse troppo azzimata, un po’ folcloristica, della statua nella
chiesa delle Monache Agostiniane.
Peccato che una statua così bella e carica di patos sia
contornata da una piatta e monocroma decorazione di paffuti angeli allacciati
in una scontata ghirlanda, opera dell’artista locale Vincenzo Stagnani eseguita
intorno agli anni 1964 - 65.
Ed ora passiamo al Santo festeggiato.
Sant' Antonio abate, detto anche Sant'Antonio il Grande, Sant'Antonio d'Egitto, Sant'Antonio del Fuoco, Sant'Antonio del porco, del Deserto, Sant'Antonio l'Anacoreta, è considerato
il fondatore del monachesimo cristiano e il primo degli Abati.
Nacque a Coma in Egitto (l'odierna Qumans) intorno al 251, figlio di agiati
agricoltori cristiani. Rimasto orfano a diciott’anni, con un patrimonio da
amministrare e una sorella minore cui badare, sentì ben presto di dover seguire
l'esortazione evangelica "Se vuoi essere perfetto, va', vendi quello che
possiedi e dallo ai poveri" (Mt 19,21). Così, distribuiti i beni ai poveri
e affidata la sorella ad una comunità femminile, seguì la vita solitaria che
già altri anacoreti facevano nei deserti attorno alla sua città, vivendo in
preghiera, povertà e castità. In questi
primi anni fu molto tormentato da tentazioni fortissime, dubbi lo assalivano
sulla validità di questa vita solitaria. Consultando altri eremiti venne
esortato a perseverare. Lo consigliarono di staccarsi ancora più radicalmente
dal mondo. Allora, coperto da un rude panno, si chiuse in una tomba scavata
nella roccia nei pressi del suo villaggio natale di Coma. In questo luogo
sarebbe stato aggredito e percosso dal demonio; venne trovato senza
sensi da persone che si recavano alla tomba per portagli del cibo e fu
trasportato nella chiesa del villaggio, dove fu curato.
Si recò ad Alessandria a rincuorare i cristiani
durante la persecuzione di Massimino Daia (311), quindi si ritirò nel deserto presso
il Mar Rosso; tornò ad Alessandria nel 335 per
combattervi gli Ariani e infine si ristabilì nel suo eremo dove morì a 105 anni circa, nel 356. Il corpo sarebbe
stato traslato ad Alessandria (565), quindi a Costantinopoli (635), e di lì in Francia (sec. 9º-10º); a Saint-Julien di Arles nel 1491.
Il
"fuoco di sant'Antonio"
La
traslazione delle reliquie avvenne proprio mentre si sta verificando, nel
territorio, un'epidemia di ergotismo. La fama
del Santo che da eremita aveva sconfitto il "fuoco della lussuria" si
diffuse come guaritore anche del "fuoco" della malattia.
Tutti
coloro che hanno a che fare con il fuoco vengono posti sotto la protezione di questo
Santo, in onore del racconto che vedeva il Santo addirittura recarsi
all'inferno per contendere al demonio le anime dei peccatori. Per questo, tra i
molti malati che accorrevano per chiedere grazie e salute, molti erano afflitti
dal fuoco di sant'Antonio corrispondente a due diverse malattie: l'ergotismo e l'herpes zoster.
Un
priorato benedettino venne incaricato di custodire le reliquie che poi
passeranno agli Ospedalieri, un
ordine dedicato alla cura dei malati. Nel periodo medievale, il culto di
Sant'Antonio fu reso popolare soprattutto per opera dell’ordine degli Ospedalieri
Antoniani, che ne consacrarono altresì la iconografia: essa ritrae il santo
ormai avanti negli anni, mentre incede appoggiandosi al bastone da pellegrino che
termina spesso con una croce a forma di tau (che gli Antoniani portavano
cucita sul loro abito), scuotendo un campanello (come facevano appunto gli
Antoniani), in compagnia di un maiale.
La
tradizione della Chiesa di benedire gli animali (in particolare i maiali) il 17
gennaio, non è legata direttamente a Sant'Antonio: nasce nel Medioevo in terra
tedesca, quando era consuetudine che ogni villaggio allevasse un maiale da
destinare all'ospedale, dove prestavano servizio i monaci di Sant'Antonio, dal
quale essi ricavavano i grasso per preparare emollienti da spalmare sulle
piaghe, e con la cui carne, guarivano gli affetti da malattie provocate da
un’alimentazione basata, quasi esclusivamente, sulla segala.
Per la
presenza di questo animale, in una sorta di equivoco, Sant'Antonio fu presto
invocato in Occidente come patrono dei macellai e salumai, dei contadini e degli
allevatori e come protettore degli animali domestici.
S.
Antonio nell’arte
L'abate Antonio, per la storia dell'arte, è soprattutto il santo
delle tentazioni demoniache: sia che esse assumano l'aspetto dell'oro, come avviene nella tavola
del Beato Angelico (circa 1436), oppure l'aspetto delle
lusinghe femminili come avviene nella tavola centrale del celebre trittico
delle tentazioni di Hieronymus Bosch, oppure ancora quello
della lotta contro inquietanti demoni come nel celebre tavola di Matthias Grünewald (ca 1515-20) che fa parte dell’Altare di Isenheim dell'ospedale degli Antoniani.
Vanno poi ricordate anche le molteplici Tentazioni dipinte
dai fiamminghi David Teniers il giovane e da Jan Brueghel il Vecchio, con la raffigurazione di paesaggi popolati da presenze
demoniache che congiurano contro il santo, mentre sullo sfondo ardono
misteriosi incendi (richiamo evidente al fuoco di Sant'Antonio); esse segnarono per molti anni un genere imitato da numerosi
artisti minori.
Il tema delle Tentazioni di Sant'Antonio riletto con una
diversa sensibilità, si ritrova anche in non pochi pittori moderni. Ricordiamo
innanzi tutto Paul
Cézanne
con la sua tentazione (circa 1875), poi la serie di tre
litografie eseguite (1888) da Odilon Redon per illustrare il romanzo La
tentation de Saint-Antoine di Gustave Flaubert.
Relativamente al XX secolo vanno menzionate le
interpretazioni date a questo tema da pittori quali Max Ernst e Salvador Dalí, entrambe eseguite nel 1946.
A causa della diffusissima venerazione, troviamo immagini del
santo nei codici miniati, nei capitelli, nelle vetrate (come in quelle del coro
della cattedrale di Chartres), nelle sculture lignee
destinate agli altari ed alle cappelle, negli affreschi, nelle tavole e nelle pale
poste nei luoghi di culto ad opera di famosi pittori come il Sassetta, (Siena 1400-1450) con la
tela del Sant'Antonio bastonato dai diavoli, che si trova nella Pinacoteca Nazionale di Siena o come il Pontormo (Empoli 1494 - Firenze 1557).
Con l'avvento della stampa la sua immagine compare anche in molte
incisioni che i devoti appendono nelle loro case o addirittura nelle loro
stalle.
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