30/05/2019 |
L'ostrica e la perla Disse un’ostrica a una vicina: “Ho veramente un gran dolore dentro di me. È qualcosa di pesante e di tondo, e sono stremata”.
Rispose l’altra con borioso compiacimento: “Sia lode ai cieli e al male, io non ho dolori in me. Sto bene e sono sana sia dentro che fuori”.
Passava in quel momento un granchio e udì le due ostriche, e disse a quella che stava bene ed era sana sia dentro che fuori: “Sì, tu stai bene e sei sana: ma il dolore che la tua vicina porta dentro di sé è una perla di straordinaria bellezza”.
È la grazia più grande, quella dell’ostrica.
Quando le entra dentro un granellino di sabbia, una pietruzza che la ferisce, non si mette a piangere, non strepita non di dispera. Giorno dopo giorno trasforma il suo dolore in una perla: il capolavoro della natura!
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La perla è spleostricandida e preziosa.
Nasce dal dolore.
Nasce quando un'ostrica viene ferita.
Quando un corpo estraneo – un'impurità, un granello di sabbia – penetra al suo interno e la inabita, la conchiglia inizia a produrre una sostanza (la madreperla) con cui lo ricopre per proteggere il proprio corpo indifeso. Alla fine si sarà formata una bella perla, lucente e pregiata. Se non viene ferita, l'ostrica non potrà mai produrre perle, perché la perla è una ferita cicatrizzata.
Quante ferite ci portiamo dentro, quante sostanze impure c'inabitano? Limiti, debolezze, peccati, incapacità, inadeguatezze, fragilità psico-fisiche... E quante ferite nei nostri rapporti interpersonali? La questione fondamentale per noi sarà sempre: cosa ne facciamo? Come le viviamo?
La sola via d'uscita è avvolgere le nostre ferite con quella sostanza cicatrizzante che è l'amore: unica possibilità di crescere e di vedere le proprie impurità diventare perle.
L'alternativa è quella di coltivare risentimenti verso gli altri per le loro debolezze, e tormentare noi stessi con continui e devastanti sensi di colpa per ciò che non dovremmo essere e per ciò che non dovremmo provare.
L'idea che spesso ci portiamo dentro è che dovremmo essere in un altro modo; che, per essere accettati da noi stessi, dagli altri e da Dio, non dovremmo avere dentro di noi quelle impurità indecenti. Vorremmo essere semplici «ostriche vuote», senza corpi estranei di vario genere, dei «puri» insomma. Ma questo è impossibile, e anche qualora ci considerassimo tali, ciò non significherebbe che non siamo mai stati feriti, ma solo che non lo riconosciamo, non riusciamo ad accettarlo, che non abbiamo saputo perdonarci e perdonare, comprendere e trasformare il dolore in amore; e saremmo semplicemente poveri e terribilmente vuoti.
È fondamentale giungere a comprendere l'importanza — in noi e fuori di noi, nelle nostre relazioni — della presenza dei limiti, delle ferite, delle zone d'ombra; capire, alla luce del messaggio evangelico, che tutto ciò che del nostro ed altrui mondo interiore è segnato dall'ombra e dal limite, è l'unica nostra ricchezza, e che proprio lì è possibile fare esperienza della nostra salvezza. Insomma, che non vi è nulla dentro di noi che meriti di essere gettato via.